L’edizione integrale in italiano del Diario (1941-1943) di Etty Hillesum che esce per Adelphi, dice Marina Corradi, è un momento importante nella riscoperta di questa giovane ebrea morta a Auschwitz. Una figura straordinaria ma, almeno da noi, ancora da molti non conosciuta; benché chi la legga finisca spesso con l’innamorarsene.
Nata nel ’14 in Olanda, la Hillesum studia e vive nella Amsterdam occupata dai nazisti. Ebrea ma non praticante, frequenta ambienti intellettuali non credenti, e conduce, come dirà con le sue parole, «una vita libera e sregolata». L’incontro con lo psicoterapeuta ebreo Julius Spier, fuggito dalla Germania nazista, la riconduce alla lettura dell’Antico Testamento, e alla domanda di un Dio di cui, impara da Spier, bisogna avere «il coraggio di tornare a pronunciare il nome». Ma la storia incombe: la persecuzione in Olanda cresce, gli ebrei devono portare la stella gialla, si pianifica la deportazione. Questa pressione tragica sembra agire su Etty come un catalizzatore che in pochissimi anni la trasforma, anzi la trasfigura. Mentre avverte che il nemico vuole l’annientamento degli ebrei, misteriosamente Etty cresce, in un dialogo sempre più serrato con un Dio al quale non chiede la propria salvezza, ma di condividere il destino del suo popolo, e di farsene voce. La ragazza che scrive da Westerbork, il campo di raccolta degli ebrei olandesi, sembra già molto distante dalla fanciulla che lietamente passava da un uomo all’altro, vorace di amore e di vita. In lei, che muore ad Auschwitz nel settembre 1943, a 29 anni, si è compiuta una sbalorditiva metamorfosi.
Per questo a chi non ha mai letto la sintesi del Diario pubblicata da Adelphi negli anni ’80 ci verrebbe da consigliare di cominciare la conoscenza della Hillesum dalle Lettere, pure già edite da Adelphi, in un percorso cronologico inverso. Giacché le Lettere sono le ultime cose scritte da Etty a Westerbork, fino al giorno della deportazione in Polonia; pagine struggenti, tese, dal fondo della ferocia e del male, ad affermare la fiducia in un Dio, nonostante tutto, padre. In un Dio per il quale, in tanto strazio, la giovane ebrea si sente in dovere di «cercare un tetto»; e quel tetto è lei stessa, che vorrebbe accogliere in sé la paura e la disperazione di vecchi, madri, bambini in partenza, sui treni stracarichi di cui non si sa, ma ormai si intuisce, il destino.
Leggendo le Lettere si capisce chi era diventata, alla fine, la ragazza delle prime pagine del Diario. Che all’inizio del ’41 era una giovane donna anticipatrice, diremmo quasi, delle ragazze degli anni Settanta ; libera da tradizioni e fedi, desiderosa solo di vivere e capire e mettersi alla prova. Una che, quando Spier le dice che la sera lui prega, è tentata di domandargli, sbalordita e impertinente: «E cosa dice, quando prega?».
Ma sotto la vivacità una inquietudine rode Etty. Ne sono l’evidenza le poche righe che accennano a un figlio che rifiuta perché «voglio risparmiargli il dolore. Rimarrai nella condizione protetta di chi non è ancora nato e sii riconoscente, essere in divenire». Abortire, dunque, perché la vita è male (benché la tragedia ebraica in atto rendesse realistica una simile visione).
Eppure nulla impedisce la metamorfosi. La Parola delle Scritture ha una parte forte in questo cammino interiore. La Prima lettera ai Corinzi - il celebre brano sulla carità - opera in Etty misteriosamente: «come una verga da rabdomante che sferzava il fondo duro del mio cuore, facendone improvvisamente scaturire sorgenti nascoste. D’un tratto mi sono ritrovata inginocchiata e l’amore sprigionato scorreva di nuovo dentro di me...» (Un passo, per inciso, che nella sintesi Adelphi anni ’80 non compariva, benché certo non irrilevante per comprendere la Hillesum).
E mentre il cerchio attorno agli ebrei olandesi si chiude, e ciascuno cerca, come può, di salvarsi, la ragazza si inoltra per i sentieri dell’Antico Testamento, ma anche in Rilke, e nel Vangelo, che da ultimo cita ripetutamente. Ama Agostino, e c’è un’eco agostiniana quando scrive: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
E più si fa fitto il buio, più la Hillesum sente crescere, dentro, un segreto tesoro. Ne è meravigliata lei stessa: «Com’è strana la mia storia, la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi...».
Umanamente inconcepibile è il suo stare di fronte al male assoluto dell’Olocausto. Davanti alle madri disperate, ai vecchi balbettanti e smarriti che all’alba vengono imbarcati sui treni, la sua risposta è, prima, una inesausta preghiera; poi, nelle Lettere, concluderà: «Io non posso fare niente, io posso solo prendere il dolore su di me, e soffrire». (La Croce come istintivamente abbracciata).
Ci si può chiedere perché solo ora si arrivi alla edizione integrale italiana, e come mai una figura così grande sia ancora poco nota. Forse è perché, volontaria nel campo di Westerbork dove poi finirà rinchiusa, in una sincerità da grande cronista scriveva che anche tra i perseguitati si alza a volte un persecutore - come l’Oberdienstleiter ebreo, in stivaloni neri e stella gialla, che nelle Lettere sorveglia un treno in partenza? O forse perché a un certo moralismo cattolico del primo dopoguerra la "sregolatezza" giovanile di Etty non piaceva? Ma chi oggi legge il Diario integrale (800 pagine, tre volte la edizione anni ’80, e con un ricco apparato di note), e vede come quella giovane donna sia rinata, nel fondo dell’inferno, e come ostinatamente affermi che la vita è «comunque buona e degna di essere vissuta», chiude queste pagine e tace. Sbalordito e grato di quanto Dio possa trasformare gli uomini - se, semplicemente, lo cercano.