C’è un abisso che separa la nettezza dell’ultimo periodo di Gianfranco Fini dall’impiastricciamento logico con cui la leader di Fratelli d’Italia, abile incarnazione del populismo italiano in versione destrorsa, risponde al quesito cruciale sul ventennio. E molto strano che il mondo della cultura latamente inteso, gli scrittori che parlano su tutto o i giornalisti à la page non abbiano notato criticamente il vistoso passo indietro della destra italiana da Gianfranco Fini a Giorgia Meloni: forse è perché nella brodaglia politico-culturale italiana si porta più agevolmente il cervello all’ammasso, e oggi in questo ammasso svettano le lodi per la leader di Fratelli d’Italia, abile incarnazione del populismo italiano in versione destrorsa, lasciata libera di dire la qualunque 24 ore su 24 senza che nessuno emetta un flatus voci. Male farebbe, la cultura italiana, se per punire Matteo Salvini chiudesse gli occhi sulla nuovo fenomeno meloniano considerato magari come una inevitabile bolla.
Eppure ogni coscienza critica dovrebbe rilevare piuttosto agevolmente l’abisso che separa la nettezza dell’ultimo Fini («Il fascismo è il male assoluto», Gerusalemme, 24 novembre 2003) dall’impiastricciamento logico con cui Giorgia risponde al quesito cruciale del giudizio sul fascismo con la trita contro-domanda: e allora il comunismo? Come se l’esistenza dei gulag giustificasse, o almeno ridimensionasse, quella dei lager, sorvolando sulla necessità morale e politica di condannare gli uni e gli altri per quello che furono concretamente, storicamente, politicamente.
Sentir parlare Giorgia Meloni di questioni alte è come ascoltare un alunno di terza media posto dinanzi a domande da terza liceo, situazione incresciosa in cui ci si rifugia nello scomodare categorie, in questo contesto, generiche come il totalitarismo evitando di entrare nel merito di quella reale esperienza storica del nostro Paese che si chiama fascismo e come tale, cioè proprio per la sua specificità italiana, richiamato come oggetto di divieto nella nostra Costituzione. Sta qui l’hic Rhodus hic salta che la giovane leader fa finta di non capire. Preferendo rilanciare tutto l’armamentario extra-sistema, se non anti-sistema, della destra estrema italiana: «È verissimo che FdI non è organico all’attuale sistema di potere e di influenze che governano la macchina dello Stato. Ne andiamo fieri. È il Pd il partito del deep State, come lo chiamerebbero gli americani, quello che rappresenta la difesa dello status quo in Italia e in Europa», ha scritto sul Corriere della Sera in replica a Ernesto Galli della Loggia suonando il piffero di una diversità se non antropologica almeno morale.
Il viaggio di Fini a Gerusalemme del 2003, quasi un ventennio fa, invece segnò uno spartiacque fra un prima ancora venato da scorie di ambiguità, malgrado Fiuggi, e un dopo che per ragioni tutte politiche non gli consentì di raccogliere i frutti della svolta. E all’epoca fu Amos Luzzatto, presidente delle Comunità ebraiche italiane, che aveva accompagnato Fini nella visita, a cogliere immediatamente la rilevanza dello strappo con il passato: «La grossa novità – disse Luzzatto – è che Fini abbia menzionato il termine fascismo», un termine che veniva sempre aggirato dai dirigenti del Movimento sociale italiano (al netto, ovviamente, delle esplicite rivendicazioni di continuità).
Ma come ha risposto varie volte Giorgia sul fascismo? «Io manco ero nata»: una delle risposte più stupide che si possano dare, come se un cittadino di oggi non potesse esprimersi sui campi di concentramento o comunque su pagine della Storia anche molto lontane. Ma per lei «il fascismo non è una peculiarità italiana», trucchetto retorico per annegare il peggior misfatto italiano («Non fummo tutti brava gente», ha mirabilmente sintetizzato Mario Draghi) nel minestrone del totalitarismo europeo (e allora perché non mondiale? Il Giappone dove lo mette?), semmai il problema è il sistema, ed ecco qui qualche eco rautiana, la corruzione, i poteri forti, chissà perché non si è ricordata di attaccare il complotto capitalista – forse per timore di sfiorare l’antisemitismo di ritorno. E così svicola, Meloni, con la scusa del comunismo (dovrebbe aggiungere reale per distinguerlo dalla sinistra italiana ma lasciamo perdere), evitando di prendere di petto il suo problema.
E dunque da tutto questo viene fuori non, banalmente, “il fascismo” della Meloni, perché nessuno immagina che una volta al governo, semmai ci andrà, istituirà tribunali speciali per gli antifascisti e farebbe vestire tutti d’orbace, no, quello che emerge è un clamoroso deficit culturale mescolato a una istintiva memoria dei tempi che furono, con tutti i miti, i riti, le goliardate e anche le tragedie di quando era una ragazza fra i tanti maschi mussoliniani del Fronte della Gioventù, esaltato in tv alla trasmissione di Nicola Porro, ed è dunque inevitabilmente «risospinta senza posa nel passato», come si conclude Il grande Gatsby. O se vogliamo buttarla un po’ in ironia, come al Peter Sellers del Dottor Stranamore a cui scattava meccanicamente il braccio, a Giorgia Meloni, più banalmente, sovviene un substrato di minorità intellettuale assieme a uno scarso, davvero scarso, coraggio politico.
(Mario Lavia)