La maggioranza dei giudici della Corte suprema americana ha «ridato il potere di regolare o proibire l’interruzione volontaria della gravidanza al popolo e ai suoi rappresentanti eletti», come ha scritto nella sua sentenza del 24 giugno scorso. Invece, la minoranza dissenziente ha osservato con amarezza che ora «uno Stato può forzare una donna a portare a termine la gravidanza anche se deve affrontare i più grandi costi personali e familiari, anche se il feto ha le più gravi anomalie o è il frutto di uno stupro o della violenza commessa da un padre su una giovane figlia».
Il presidente della Corte si è dissociato osservando che la maggioranza ha fatto un passo che non era necessario, mentre avrebbe dovuto autolimitarsi. La Corte suprema, contestando sé stessa, ha scritto una delle più brutte pagine della storia della giustizia costituzionale e ha messo in crisi il modello che essa ha rappresentato nel mondo.
La sentenza che aveva permesso l’aborto, riconosciuto come diritto della donna, era di cinquant’anni fa. Era stata confermata da un’altra sentenza del 1992. I 28 casi citati dalla maggioranza a sostegno della propria tesi, in cui la Corte ha radicalmente modificato il proprio orientamento, si fondavano su precedenti decisioni della Corte stessa.