Condivido in pieno questa frase di Popper Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte. (Karl Popper) Buon pomeriggio! Dani
Il problema, come dice Popper, è quello di riuscire a vedere il mondo come soggetti e non oggetti del potere. Quando la società si organizza in modo saldamente tecnico ci troviamo di fronte ad una specie di gran sistema di ingranaggi che girano tutti mossi da un centro unitario: la propaganda del regime nazista come la radio di Goebbels che dà ordini a tutti. Secondo l'idea di "pubblicità centralizzata" di Adorno, noi viviamo in una società non tanto diversa da quella nazista. Lì c'era infatti una propaganda politica, ma noi siamo dominati totalitariamente dalla pubblicità delle merci e siamo altrettanto poco liberi. Grazie Dani. Buona serata.
Buongiorno amico mio. Sai non credo che sia necessario scomodare la filosofia per renderci consapevoli che siamo manipolati dalla pubblicità, dall'economia, dalla politica, dal potere e che per quanto, gridiamo W la libertà, siamo tutti meno che liberi. Il problema è come trovare la strada per tornare ad essere soggetti pensanti con la nostra capoccia, in rapporto alla nostra cultura, la nostra esperienza di vita, alla nostra sensibilità, al nostro cuore, alla nostra spiritualità (cosa che vedo sempre meno nel mondo odierno) Abbraccioooo per tutto il giorno
Il fatto è che la filosofia scopre in anticipo quello che accadrà anche tra 1.000 anni. Aristotele e Platone già sapevano queste cose. Enrico Berti scrive che la Filosofia non può risolvere i problemi dell'uomo, ma ha il compito di indicare la strada per risolverli. Grazie per l'abbraccio che dura un giorno.
Infatti la filosofia era una delle materie che adoravo e soprattutto studiavo volentieri ai miei tempi di scuola... con il tempo me ne sono allontanata ma non chiedermi il perchè, non lo so neanche io. In gioventù si fanno parecchi errori ahimè Dovrò riprenderla per riempire l'altra metà del mio cervello rimasto vuoto ;-) Riabbraccioooo per tutto il giorno
Eppure, ho offerto l'incredibile storia della passione amorosa tra il maestro e l'allieva, cioè Martin Heidegger e Hannah Arendt. Doppio abbraccio, grazie.
Hai offerto? Dove, io non la trovo ahimè Io mica studiavo filosofia per sapere degli amori dei filosofi, già ne avevo abbastanza dei miei hihihihihih :D Buongiorno per tutto il giorno
Perché non conosci il significato dell'amore tra il filosofo e l'allieva:
Arendt Heidegger Due amanti pieni di colpe
Un amore in Germania nel secolo appena passato che mette a nudo le lacerazioni della storia e della cultura tedesca. Un rapporto fatto di felicità e tragedia, impegno e delusione. Due amanti che per origine, carattere e esperienze di vita non avrebbero potuto essere più distanti. Da quando sono state pubblicate le lettere di Hannah Arendt e Martin Heidegger (quelle di lui erano state a lungo inaccessibili) la loro storia d' amore si è rivelata al lettore in ogni dettaglio. Per quanto riguarda lei è la storia di una liberazione del pensiero, dell' emancipazione intellettuale di una donna perseguitata perché ebrea. Per quello che riguarda lui è la storia di un maestro che abbagliato dal potere tradisce se stesso e il proprio pensiero. Per entrambi è però anche la forza di un amore, al quale soprattutto lei è incondizionatamente fedele, in nome della fedeltà verso se stessa. Il seme di questa fede incondizionata nell' entelechia dell' amore lo aveva gettato il trentacinquenne professore che le citava Agostino ("amo significa volo ut sis, voglio che tu sia come sei") e già nella sua seconda lettera, il 21 febbraio 1925, le scriveva : "Perché l' amore è un dolce fardello? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo eppur restiamo noi stessi. Vogliamo dire grazie all' amato ma non troviamo niente che sia sufficiente se non il dono di noi stessi. Così l' amore trasforma la gratitudine in fedeltà a se stessi e nella capacità di credere incondizionatamente nell' altro". Tanta totale disponibilità naturalmente non sedusse solo sul piano filosofico la studentessa diciottenne, bella e affamata di sapere. Tre anni dopo, lasciata Marburg dove insegnava Heidegger, Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in Agostino. Antonia Grunenberg, che dirige il Centro e l' Archivio Hannah Arendt all' Università di Oldenburg, ci racconta in un libro ben curato e dettagliato (Storia di un amore, Longanesi, pagg. 500, euro 22) la storia di questo amore che fece scandalo - non solo perché era il legame tra una ragazza e un uomo sposato e padre di famiglia; lo scandalo continuò anche dopo la guerra perché lei, emigrata negli Stati Uniti, volle riprendere fin dal suo primo viaggio di ritorno in Germania i contatti con lui, che si era lasciato sedurre dal nazionalsocialismo e nel 1933 era stato nominato rettore dell' Università di Marburg. Qual è il segreto di un amore così pervicace da ignorare qualsiasi tipo di delusione? «Il segreto del loro amore era, io credo, quello di prendere nutrimento da più fonti. Una di queste era la passione . Ma un' altra era la fedeltà, un' altra ancora la fede nella verità del vissuto; e infine il comune, ancorché conflittuale, rapporto con il pensiero e il suo sviluppo». Perché Hannah Arendt volle riprendere i contatti con Heidegger? «Dalle lettere e da tutte le notizie che abbiamo è evidente che
Arendt prima di tutto voleva sapere se il suo amore era stato vero, se aveva anche per Heidegger questo significato esistenziale che lei gli attribuiva; o invece se per lui era stato soltanto un affaire, una storia. Certamente c' era da parte di lei anche la curiosità di sapere che cosa fosse divenuto davvero quest' uomo che aveva tradito la filosofia, il pensiero e lei stessa. Tra gli emigrati negli Stati Uniti si parlava continuamente degli amici e dei colleghi di un tempo, di quanto si fossero compromessi col nazismo, e su Heidegger correvano le voci più disparate. Si sapeva che era stato uno dei primi rettori universitari a passare al nazismo a bandiere spiegate. Perciò lei voleva sapere quello che veramente aveva fatto, chi era, come si era comportato». La scoperta più interessante nelle sue ricerche? «E' stato capire a fondo quale fosse l' idea dell' amore per Hannah Arendt. Secondo lei dall' amore tra due persone nasce una terza cosa che è un riferimento per entrambi. L' amore non consiste solo nei sentimenti verso l' altro, ma prende una forma propria - che chiede qualcosa a entrambi gli amanti. Ho anche capito perché Hannah Arendt dopo la guerra abbia sempre rifiutato la definizione di filosofa, anche se si muoveva nell' ambito della filosofia. Aveva infatti elaborato una critica radicale al modo in cui Heidegger e altri si occupavano di filosofia come materia di riflessione senza sentire nessun impegno verso il mondo, senza manifestare in alcun modo quella "cura" in senso ontologico di cui Heidegger parla diffusamente in Essere e Tempo. Secondo Arendt questo pensiero che distoglieva lo sguardo dal mondo fu una delle cause del fallimento degli intellettuali europei di fronte agli avvenimenti politici del secolo scorso». Alla fine, diventa Hannah la figura dominante nel loro rapporto? "Hannah Arendt era una figura dominante e Heidegger, almeno quando lei lo incontrò di nuovo dopo la guerra, era un pensatore chiuso in se stesso, che esercitava il pensiero non con la determinazione ma piuttosto attraverso la calma, la contemplazione. Certamente lei non lo ha mai dominato, ma poiché si muoveva nel mondo più di lui, aveva più collegamenti con il mondo reale, poteva nei loro colloqui anche sfidarlo, provocarlo». Il rapporto tra Arendt e Heidegger è secondo lei in qualche modo paradigmatico dei rapporti tra tedeschi e ebrei? «In un certo modo e per un certo periodo senz' altro. Rapporti di questo genere ce ne sono stati molti. Gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali ebrei si influenzavano reciprocamente.
E' vero che alla fine del 19esimo secolo c' era stata una divisione negli ambienti del movimento giovanile nazionalista, ma prima del 1933 non aveva influito su i veri grandi intellettuali. E questa era stata fino al '33 anche l' esperienza di Hannah Arendt. Fu nel '33 che la situazione precipitò e gran parte degli intellettuali tedeschi e europei si rivelarono volenterosi collaboratori dei regimi autoritari. L' esperienza del crollo dell' intellighenzia europea fu considerata paradigmatica da Arendt e fu quello che la spinse a riflettere continuamente sul rapporto del pensiero filosofico col mondo». Uno dei temi su cui riflette è la natura della responsabilità di chi è sottoposto, praticamente disarmato, alla propaganda di un regime totalitario. Qual è il suo giudizio? «Nei dibattiti del dopoguerra sulla colpa e sulla responsabilità Hannah Arendt tracciò un confine preciso. In genere la discussione oscilla tra due poli. Chi dice che sotto una dittatura non si può parlare di responsabilità perché la dittatura è violenza e costrizione. E chi sostiene che esiste l' obbligo a resistere, anche a rischio della vita. Hannah Arendt propone una terza prospettiva. Con Kant e con Socrate lei sostiene che nessun uomo può voler convivere con il suo alter ego criminale. Il nostro alter ego (che in termini cristiani è la coscienza) ci dice che non possiamo commettere crimini, altrimenti diventiamo nemici del genere umano. Hannah Arendt non teorizza la resistenza militante, ma dice che il minimo comune denominatore è non diventare complici del male, in quanto siamo portatori di una responsabilità verso la collettività e non possiamo accettare che vada distrutta. Quindi abbiamo almeno la possibilità di tirarci indietro. Se dessimo per scontato che i regimi totalitari possono distruggere anche l' ultima capacità dell' uomo all' autocontrollo nei termini del senso comune, torneremmo in una situazione precivilizzazione, in cui ognuno è nemico dell' altro : homo homini lupus. Questo è quello che la colpì particolarmente nella vicenda e nella persona di Adolf Eichmann, che era palesemente un uomo privo di coscienza. Proprio questo sensus communis era assente nell' epoca di cui parliamo, anche e soprattutto tra gli intellettuali».
Molto interessante Gus e questo mi conferma che devo riprendere a leggere libri di filo. Però c'è un fatto che non riesco a spiegarmi. Io studiai sui libri di Nicola Abbagnano (una cinquantina di anni fa) ma questa filosofa non è neanche minimamente accennata. Heidegger sì e anche molto minuziosamente, di Arendt neanche l'ombra. Non ti sembra strano questo fatto?
Arrivo a sera stanca. Fare della filosofia dopo una giornata intensa è difficile. Popper non lo conosco, ma lo conoscerò a breve tempo. E allora scriverò un commento-commento. Dove vanno a finire le parole sussurrate al cielo? Dove vanno? Dove vanno a finire i pensieri donati a chi ti è caro? Dove vanno? Lo sapremo nell'abbraccio della preghiera. Buonanotte Agù. Non è filosofia ma è tenerezza!
Sto ancora leggendo il libro di Hannah Arendt e lo faccio lentamente perché in qualche modo mi sorprende. Mi interessa molto la discussione su violenza e potere, due termini quasi sempre associati tanto che è diventato un luogo comune affermarne la intrinseca connessione. Non so se ho capito bene quello che la Arendt sostiene, ma mi sembra che operi un rovesciamento di questo postulato sostenendo appunto che la violenza è solo uno strumento. La Arendt nota come ci sia sempre stata una generale riluttanza ad occuparsi della violenza in sé, difatti esiste un consenso generalizzato fra i politologi sulla affermazione che la violenza è "la più flagrante manifestazione del potere" e Max Weber ha definito lo stato come "il dominio degli uomini sugli uomini basato sui mezzi di una violenza legittima o quanto meno ritenuta legittima". E considera strano questo consenso a meno di non rifarsi alla valutazione data da Marx dello Stato come strumento di oppressione nelle mani della classe dominante. E' opportuno a questo punto definire cosa intendiamo per potere altrimenti non si capisce più niente. La Arendt dice che noi non distinguiamo fra parole chiave come "potere", " potenza" ," forza", " autorità", e "violenza". Le quali invece rispondono a proprietà diverse e usarle come sinonimi ( a proposito) falsano la prospettiva storica determinando una sorta di cecità rispetto alla realtà a cui fanno riferimento. In sostanza tutti i termini enumerati sopra finiscono per identificare un'unica cosa e cioè "i mezzi attraverso i quali l'uomo domina sull'uomo". La Arendt fa una distinzione sostanziale tra tutti quei termini:
potere = alla capacità umana di agire di concerto. Non è mai una proprietà individuale, ma di un gruppo e continua ad esistere finché il gruppo resta unito;
potenza: indica invece una proprietà al singolare, che può essere relativa ad un oggetto o ad una persona e appartiene alle sue caratteristiche individuali. Si può realizzare in rapporto ad altre cose o persone, ma non dipende da loro;
forza: che viene usato spesso come sinonimo di violenza deve essere riservata solo alle "forze della natura" o " la forza delle circostanze", cioè per indicare forze sprigionate da fenomeni naturali o sociali;
autorità: è un termine secondo la Arendt che viene più spesso usato a sproposito e la sua specificità è "il riconoscimento indiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire" in assenza di qualsiasi coercizione o persuasione;
violenza: si distingue per il suo carattere strumentale ed è quella che più si avvicina alla forza individuale poiché " gli strumenti di violenza sono creati allo scopo di moltiplicare la forza naturale finché, nell'ultimo stadio del loro sviluppo, possano prenderne il suo posto.
Il potere dunque è caratterizzato dall'agire insieme ed ha quindi a che fare con la politica. Si può legittimamente parlare di politica e di potere soltanto in presenza di una pluralità di individui che agiscono insieme. Dove non esistono la pluralità e l'agire comune in uno spazio pubblico e libero ( in assenza di questi due presupposti si riduce alla pura naturalità) si configurano regimi autoritari in cui impera la violenza e non si può parlare né di potere né di politica.
Ho scaricato dei doc da qui: http://www.filosofico.net/arendt.htm In settimana vado in biblioteca. Devo colmare questa lacuna "scolastica" Buon pomeriggio domenicale
RispondiEliminaCondivido in pieno questa frase di Popper
Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte.
(Karl Popper)
Buon pomeriggio!
Dani
Il problema, come dice Popper, è quello di riuscire a vedere il mondo come soggetti e non oggetti del potere.
EliminaQuando la società si organizza in modo saldamente tecnico ci troviamo di fronte ad una specie di gran sistema di ingranaggi che girano tutti mossi da un centro unitario: la propaganda del regime nazista come la radio di Goebbels che dà ordini a tutti. Secondo l'idea di "pubblicità centralizzata" di Adorno, noi viviamo in una società non tanto diversa da quella nazista. Lì c'era infatti una propaganda politica, ma noi siamo dominati totalitariamente dalla pubblicità delle merci e siamo altrettanto poco liberi.
Grazie Dani.
Buona serata.
Buongiorno amico mio.
RispondiEliminaSai non credo che sia necessario scomodare la filosofia per renderci consapevoli che siamo manipolati dalla pubblicità, dall'economia, dalla politica, dal potere e che per quanto, gridiamo W la libertà, siamo tutti meno che liberi.
Il problema è come trovare la strada per tornare ad essere soggetti pensanti con la nostra capoccia, in rapporto alla nostra cultura, la nostra esperienza di vita, alla nostra sensibilità, al nostro cuore, alla nostra spiritualità (cosa che vedo sempre meno nel mondo odierno)
Abbraccioooo per tutto il giorno
Il fatto è che la filosofia scopre in anticipo quello che accadrà anche tra 1.000 anni. Aristotele e Platone già sapevano queste cose.
EliminaEnrico Berti scrive che la Filosofia non può risolvere i problemi dell'uomo, ma ha il compito di indicare la strada per risolverli.
Grazie per l'abbraccio che dura un giorno.
Infatti la filosofia era una delle materie che adoravo e soprattutto studiavo volentieri ai miei tempi di scuola... con il tempo me ne sono allontanata ma non chiedermi il perchè, non lo so neanche io. In gioventù si fanno parecchi errori ahimè
EliminaDovrò riprenderla per riempire l'altra metà del mio cervello rimasto vuoto ;-)
Riabbraccioooo per tutto il giorno
Eppure, ho offerto l'incredibile storia della passione amorosa tra il maestro e l'allieva, cioè Martin Heidegger e Hannah Arendt.
EliminaDoppio abbraccio, grazie.
Hai offerto? Dove, io non la trovo ahimè
EliminaIo mica studiavo filosofia per sapere degli amori dei filosofi, già ne avevo abbastanza dei miei hihihihihih :D
Buongiorno per tutto il giorno
Perché non conosci il significato dell'amore tra il filosofo e l'allieva:
EliminaArendt Heidegger Due amanti pieni di colpe
Un amore in Germania nel secolo appena passato che mette a nudo le lacerazioni della storia e della cultura tedesca. Un rapporto fatto di felicità e tragedia, impegno e delusione. Due amanti che per origine, carattere e esperienze di vita non avrebbero potuto essere più distanti. Da quando sono state pubblicate le lettere di Hannah Arendt e Martin Heidegger (quelle di lui erano state a lungo inaccessibili) la loro storia d' amore si è rivelata al lettore in ogni dettaglio. Per quanto riguarda lei è la storia di una liberazione del pensiero, dell' emancipazione intellettuale di una donna perseguitata perché ebrea. Per quello che riguarda lui è la storia di un maestro che abbagliato dal potere tradisce se stesso e il proprio pensiero. Per entrambi è però anche la forza di un amore, al quale soprattutto lei è incondizionatamente fedele, in nome della fedeltà verso se stessa. Il seme di questa fede incondizionata nell' entelechia dell' amore lo aveva gettato il trentacinquenne professore che le citava Agostino ("amo significa volo ut sis, voglio che tu sia come sei") e già nella sua seconda lettera, il 21 febbraio 1925, le scriveva : "Perché l' amore è un dolce fardello? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo eppur restiamo noi stessi. Vogliamo dire grazie all' amato ma non troviamo niente che sia sufficiente se non il dono di noi stessi. Così l' amore trasforma la gratitudine in fedeltà a se stessi e nella capacità di credere incondizionatamente nell' altro". Tanta totale disponibilità naturalmente non sedusse solo sul piano filosofico la studentessa diciottenne, bella e affamata di sapere. Tre anni dopo, lasciata Marburg dove insegnava Heidegger, Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in Agostino. Antonia Grunenberg, che dirige il Centro e l' Archivio Hannah Arendt all' Università di Oldenburg, ci racconta in un libro ben curato e dettagliato (Storia di un amore, Longanesi, pagg. 500, euro 22) la storia di questo amore che fece scandalo - non solo perché era il legame tra una ragazza e un uomo sposato e padre di famiglia; lo scandalo continuò anche dopo la guerra perché lei, emigrata negli Stati Uniti, volle riprendere fin dal suo primo viaggio di ritorno in Germania i contatti con lui, che si era lasciato sedurre dal nazionalsocialismo e nel 1933 era stato nominato rettore dell' Università di Marburg. Qual è il segreto di un amore così pervicace da ignorare qualsiasi tipo di delusione? «Il segreto del loro amore era, io credo, quello di prendere nutrimento da più fonti. Una di queste era la passione . Ma un' altra era la fedeltà, un' altra ancora la fede nella verità del vissuto; e infine il comune, ancorché conflittuale, rapporto con il pensiero e il suo sviluppo». Perché Hannah Arendt volle riprendere i contatti con Heidegger? «Dalle lettere e da tutte le notizie che abbiamo è evidente che
Arendt prima di tutto voleva sapere se il suo amore era stato vero, se aveva anche per Heidegger questo significato esistenziale che lei gli attribuiva; o invece se per lui era stato soltanto un affaire, una storia. Certamente c' era da parte di lei anche la curiosità di sapere che cosa fosse divenuto davvero quest' uomo che aveva tradito la filosofia, il pensiero e lei stessa. Tra gli emigrati negli Stati Uniti si parlava continuamente degli amici e dei colleghi di un tempo, di quanto si fossero compromessi col nazismo, e su Heidegger correvano le voci più disparate. Si sapeva che era stato uno dei primi rettori universitari a passare al nazismo a bandiere spiegate. Perciò lei voleva sapere quello che veramente aveva fatto, chi era, come si era comportato». La scoperta più interessante nelle sue ricerche? «E' stato capire a fondo quale fosse l' idea dell' amore per Hannah Arendt. Secondo lei dall' amore tra due persone nasce una terza cosa che è un riferimento per entrambi. L' amore non consiste solo nei sentimenti verso l' altro, ma prende una forma propria - che chiede qualcosa a entrambi gli amanti. Ho anche capito perché Hannah Arendt dopo la guerra abbia sempre rifiutato la definizione di filosofa, anche se si muoveva nell' ambito della filosofia. Aveva infatti elaborato una critica radicale al modo in cui Heidegger e altri si occupavano di filosofia come materia di riflessione senza sentire nessun impegno verso il mondo, senza manifestare in alcun modo quella "cura" in senso ontologico di cui Heidegger parla diffusamente in Essere e Tempo. Secondo Arendt questo pensiero che distoglieva lo sguardo dal mondo fu una delle cause del fallimento degli intellettuali europei di fronte agli avvenimenti politici del secolo scorso». Alla fine, diventa Hannah la figura dominante nel loro rapporto? "Hannah Arendt era una figura dominante e Heidegger, almeno quando lei lo incontrò di nuovo dopo la guerra, era un pensatore chiuso in se stesso, che esercitava il pensiero non con la determinazione ma piuttosto attraverso la calma, la contemplazione. Certamente lei non lo ha mai dominato, ma poiché si muoveva nel mondo più di lui, aveva più collegamenti con il mondo reale, poteva nei loro colloqui anche sfidarlo, provocarlo». Il rapporto tra Arendt e Heidegger è secondo lei in qualche modo paradigmatico dei rapporti tra tedeschi e ebrei? «In un certo modo e per un certo periodo senz' altro. Rapporti di questo genere ce ne sono stati molti. Gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali ebrei si influenzavano reciprocamente.
EliminaE' vero che alla fine del 19esimo secolo c' era stata una divisione negli ambienti del movimento giovanile nazionalista, ma prima del 1933 non aveva influito su i veri grandi intellettuali. E questa era stata fino al '33 anche l' esperienza di Hannah Arendt. Fu nel '33 che la situazione precipitò e gran parte degli intellettuali tedeschi e europei si rivelarono volenterosi collaboratori dei regimi autoritari. L' esperienza del crollo dell' intellighenzia europea fu considerata paradigmatica da Arendt e fu quello che la spinse a riflettere continuamente sul rapporto del pensiero filosofico col mondo». Uno dei temi su cui riflette è la natura della responsabilità di chi è sottoposto, praticamente disarmato, alla propaganda di un regime totalitario. Qual è il suo giudizio? «Nei dibattiti del dopoguerra sulla colpa e sulla responsabilità Hannah Arendt tracciò un confine preciso. In genere la discussione oscilla tra due poli. Chi dice che sotto una dittatura non si può parlare di responsabilità perché la dittatura è violenza e costrizione. E chi sostiene che esiste l' obbligo a resistere, anche a rischio della vita. Hannah Arendt propone una terza prospettiva. Con Kant e con Socrate lei sostiene che nessun uomo può voler convivere con il suo alter ego criminale. Il nostro alter ego (che in termini cristiani è la coscienza) ci dice che non possiamo commettere crimini, altrimenti diventiamo nemici del genere umano. Hannah Arendt non teorizza la resistenza militante, ma dice che il minimo comune denominatore è non diventare complici del male, in quanto siamo portatori di una responsabilità verso la collettività e non possiamo accettare che vada distrutta. Quindi abbiamo almeno la possibilità di tirarci indietro. Se dessimo per scontato che i regimi totalitari possono distruggere anche l' ultima capacità dell' uomo all' autocontrollo nei termini del senso comune, torneremmo in una situazione precivilizzazione, in cui ognuno è nemico dell' altro : homo homini lupus. Questo è quello che la colpì particolarmente nella vicenda e nella persona di Adolf Eichmann, che era palesemente un uomo privo di coscienza. Proprio questo sensus communis era assente nell' epoca di cui parliamo, anche e soprattutto tra gli intellettuali».
EliminaVANNA VANNUCCINI
27 gennaio 2009
Leggi tutto l'articolo, in tre commenti, cara Anna.
EliminaBuona giornata.
Molto interessante Gus e questo mi conferma che devo riprendere a leggere libri di filo. Però c'è un fatto che non riesco a spiegarmi. Io studiai sui libri di Nicola Abbagnano (una cinquantina di anni fa) ma questa filosofa non è neanche minimamente accennata. Heidegger sì e anche molto minuziosamente, di Arendt neanche l'ombra. Non ti sembra strano questo fatto?
EliminaArrivo a sera stanca. Fare della filosofia dopo una giornata intensa è difficile. Popper non lo conosco, ma lo conoscerò a breve tempo. E allora scriverò un commento-commento.
RispondiEliminaDove vanno a finire le parole sussurrate al cielo? Dove vanno?
Dove vanno a finire i pensieri donati a chi ti è caro? Dove vanno?
Lo sapremo nell'abbraccio della preghiera. Buonanotte Agù. Non è filosofia ma è tenerezza!
Per me la filosofia è dolce come una carezza.
EliminaBacio Lucia.
Sto ancora leggendo il libro di Hannah Arendt e lo faccio lentamente perché in qualche modo mi sorprende.
RispondiEliminaMi interessa molto la discussione su violenza e potere, due termini quasi sempre associati tanto che è diventato un luogo comune affermarne la intrinseca connessione.
Non so se ho capito bene quello che la Arendt sostiene, ma mi sembra che operi un rovesciamento di questo postulato sostenendo appunto che la violenza è solo uno strumento.
La Arendt nota come ci sia sempre stata una generale riluttanza ad occuparsi della violenza in sé, difatti esiste un consenso generalizzato fra i politologi sulla affermazione che la violenza è "la più flagrante manifestazione del potere" e Max Weber ha definito lo stato come "il dominio degli uomini sugli uomini basato sui mezzi di una violenza legittima o quanto meno ritenuta legittima".
E considera strano questo consenso a meno di non rifarsi alla valutazione data da Marx dello Stato come strumento di oppressione nelle mani della classe dominante.
E' opportuno a questo punto definire cosa intendiamo per potere altrimenti non si capisce più niente.
La Arendt dice che noi non distinguiamo fra parole chiave come "potere", " potenza" ," forza", " autorità", e "violenza".
Le quali invece rispondono a proprietà diverse e usarle come sinonimi ( a proposito) falsano la prospettiva storica determinando una sorta di cecità rispetto alla realtà a cui fanno riferimento.
In sostanza tutti i termini enumerati sopra finiscono per identificare un'unica cosa e cioè "i mezzi attraverso i quali l'uomo domina sull'uomo".
La Arendt fa una distinzione sostanziale tra tutti quei termini:
potere = alla capacità umana di agire di concerto.
Non è mai una proprietà individuale, ma di un gruppo e continua ad esistere finché il gruppo resta unito;
potenza: indica invece una proprietà al singolare, che può essere relativa ad un oggetto o ad una persona e appartiene alle sue caratteristiche individuali. Si può realizzare in rapporto ad altre cose o persone, ma non dipende da loro;
forza: che viene usato spesso come sinonimo di violenza deve essere riservata solo alle "forze della natura" o " la forza delle circostanze", cioè per indicare forze sprigionate da fenomeni naturali o sociali;
autorità: è un termine secondo la Arendt che viene più spesso usato a sproposito e la sua specificità è "il riconoscimento indiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire" in assenza di qualsiasi coercizione o persuasione;
violenza: si distingue per il suo carattere strumentale ed è quella che più si avvicina alla forza individuale poiché " gli strumenti di violenza sono creati allo scopo di moltiplicare la forza naturale finché, nell'ultimo stadio del loro sviluppo, possano prenderne il suo posto.
Il potere dunque è caratterizzato dall'agire insieme ed ha quindi a che fare con la politica.
Si può legittimamente parlare di politica e di potere soltanto in presenza di una pluralità di individui che agiscono insieme.
Dove non esistono la pluralità e l'agire comune in uno spazio pubblico e libero ( in assenza di questi due presupposti si riduce alla pura naturalità) si configurano regimi autoritari in cui impera la violenza e non si può parlare né di potere né di politica.
Non so perché Abbagnano non cita La Arendt. E' una delle più grandi pensatrici che hanno analizzato il concetto di "politica".
EliminaCiao Anna.
Ho scaricato dei doc da qui: http://www.filosofico.net/arendt.htm
EliminaIn settimana vado in biblioteca. Devo colmare questa lacuna "scolastica"
Buon pomeriggio domenicale
Sì, ma ha dimenticato un testo importantissimo della Arendt, cioè "Sulla Violenza".
EliminaCiao Anna.
Prendo nota.
EliminaCiao Gus
Ciao Anna.
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